L’origine della (parola) razza

In un articolo dello scorso 28 febbraio pubblicato su “Il Messaggero” e disponibile qui, si pone ancora una volta l’accento sull’inadeguatezza dei servizi linguistici offerti alla Pubblica Amministrazione.

A differenza del caso di Milano di cui ho scritto qui, nella trappola dell’errore è invece caduto un traduttore, reo, sembrerebbe, di aver reso la parola inglese “race” con “razza”.

L’origine dell’equivoco e’ da attribuirsi al diverso significato che nei paesi anglosassoni (il formulario originale è statunitense) si dà alla parola razza (ovvero gruppo etnico) e alle norme che a questa si collegano.

Tenendo come esempio gli Stati Uniti, esistono norme a livello federale statale che ripongono al datore di lavoro di segnalare alle autorità, in maniera anonima, il gruppo etnico cui appartengono gli assunti (afroamericano, asiatico, bianco, ispanico, ecc.).

Potrebbe sembrare un’iniziativa discriminatoria, ma l’intento è esattamente opposto. Monitorando le cifre e costruendo analisi ad hoc la US Equal Employment Opportunity Commission riesce a individuare possibili discriminazioni sistematiche: ad esempio, se 50 posizioni disponibili sono assegnate tutte a maschi bianchi, un problema c’è.

Per contro, è invece illecito assumere o non assumere qualcuno sulla base dell’appartenenza a un gruppo etnico. Esistono inoltre altre norme che ricadono nel novero delle cosiddette azioni positive, sia in Europa che all’estero.

Il punto che qui interessa, tuttavia, è come si e’ arrivati a questa soluzione traduttiva.

Ne parlavo ieri con alcuni colleghi con i quali abbiamo formulato delle ipotesi provando a riflettere non sull’origine, ma sulla modalità attraverso cui si è creato il risibile (e già drammatico) risultato:

a) Il volenteroso

Un solerte impiegato, o uno specialista della materia con limitate competenze linguistiche ha provveduto a tradurre il modulo come da disposizioni superiori.

b) Google Translate

No comment

c) Il traduttore sottopagato

Come spesso avviene nel settore pubblico, l’ufficio responsabile ha provveduto a bandire una gara per l’appalto della traduzione, che è stata appaltata al miglior offerente (leggasi il partecipante che ha offerto il prezzo più basso).

Se il caso reale rientri tra quelli elencati non è noto (se ve ne vengono in mente altri, potete scriverli nei commenti), ma se così fosse, l’unico elemento che li accomuna è il mancato ricorso a un traduttore professionista.

Ciò avrebbe probabilmente evitato il pubblico ludibrio al committente, potendo il professionista ricorrere alle proprie conoscenze linguistiche e soprattutto culturali.

Bene ha fatto l’Azienda Sanitaria dall’Alto Adige ad ammettere l’errore e ad annunciarne la correzione. Questo non toglie il fatto che, in un’ottica generale di qualità dei servizi offerti al cittadino, la Pubblica Amministrazione può e deve fare di più.

Il ricorso a traduttori e interpreti professionisti è un dovere per le istituzioni e un diritto dei contribuenti.

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